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356 CAPITOLO DECIMOTERZO

la sua volontà come il resto. Posata la lettera aperta sul fascio di rododendri che teneva in grembo, li raccolse nelle mani tremanti, se li strinse sul viso come per odorarli, volle nascondere anche agli spiriti dell’aria il bacio avido sulle parole di fuoco. Era vinta, era sua, era la donna della sua anima e de’ suoi sensi, che avrebbe vissuto di amore con lui, poveramente; che si sarebbe chiusa con lui in quel nido montano, fuori del mondo che lo avrebbe consolato di tutte le amarezze passate, che lo avrebbe confermato nella sua idea di fare il bene, di non pensare all’Inconoscibile, di accettare anche il sonno eterno. Lagrime le facevano groppo alla gola. Spaventata, si ripose ancora in grembo i rododendri e la lettera, cercò di non pensare a niente, di smarrirsi nella contemplazione di un garofano selvaggio che tremava nel vento come tremavano le mani di lei. Quando le parve di essere ritornata signora di sè, riprese a leggere:

«Sarà perchè nella solitudine la fantasia prende il dominio dello spirito, sarà perchè la poesia malinconica e dolce del luogo ammollisce il cuore, non lo so; so che spasimo, so che passo ore e ore a guardare, non il suo ritratto perchè non lo possiedo, ma un pezzo di carta dov’ella un giorno, pregata da me, scrisse il titolo di un libro. Guardo guardo, poi chiudo gli occhi, quelle tre parole indifferenti mi diventano, sotto le palpebre, il suo viso radiante ingegno, fantasia e fuoco. Mi chino, bevo il profumo ch’ella usa e che la carta serba ancora, che mi fa dolere il petto come la divina musica di “Aveu” di Schumann, che, suonata da lei, mi fece dolere in un modo tanto dolce fino alle braccia e ai polsi. Veda, cara mamma Fedele, come Le dico filialmente tutto. Questa mattina bevevo senza freno il viso, lo sguardo, il profumo. Non potendone più, riposi il mio tesoro, corsi a guardare, pochi minuti fuori del