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358 CAPITOLO DECIMOTERZO


Sotto la firma era scritto:

«Non ingannarti, questa rovina di un’anima è opera tua, tua, tua! Sento che Iddio riedificherà. Voglia Egli, nella Sua misericordia e sapienza, servirsi di te. Ricorda allora la tua povera amica e prega per lei.

Fedele.»


Lelia non si fermò su queste righe, ricorse alle parole appassionate, le rilesse più e più volte, le baciò, le ribaciò. Finalmente si ripose la lettera in seno, col respiro profondo di chi riposa sulla meta dopo un disperato sforzo dei muscoli. La gioia le si dilatò dalla vita del cuore alla vita dei sensi. Godette il vento freddo che le batteva il viso, godette la scena selvaggia e grande delle montagne di faccia, dalle fronti ardenti nel sol cadente, del caos di macigni ruinosi per le ombre inferiori. Godette l’ondulare dei rododendri presso a lei. Godette di sentirsi vivere, si alzò diritta in piedi, aperse e stese le braccia quasi ad abbracciare il mondo che fosse diventato suo. Tremò che qualcuno l’avesse veduta in quell’atto, si guardò in giro, palpitando. Nessuno, nessuno! Si chinò a raccogliere i rododendri cadutile dal grembo, e, ricompostone il fascio, prese a discendere, avida della sua camera e anche avida dell’acuto piacere che le darebbe il senso del suo segreto in presenza d’altri. Discese rapida, con un passo elastico, baldanzoso, di donna felice.

All’entrata della villa incontrò Teresina che ammirò molto le rose delle Alpi. Queste furono le sue parole, ma in fatto la cameriera era sbalordita della nuova luce negli occhi della signorina. Le riferì che la siora Bettina si era evidentemente impermalita di essere stata piantata in asso per donna Fedele. «Ah sì?» fece Lelia «Mi rincresce. Cosa voleva?» Salì nella sua camera senz’attendere risposta, ne chiuse l’uscio a chiave, lesse ancora, beata. Ripose i rododendri sulla spalliera