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418 CAPITOLO DECIMOSESTO

viandante, improvvisa, tutta l’alta Valsolda: Loggio tuffato nel verde, sopra Loggio la breve striscia bianca di Drano, Puria aggrappata al ventre della sua montagna, Castello coronante lo sprone di scogli a piombo che il torrente rode al piede; e nel centro, alto sopra tutti, sporgente appena col campanile e qualche tetto dalla sua nicchia verde sotto il gigante bastione di dolomia, Dasio. Lelia si fece nominare tutti i villaggi, sedette sull’erba guardando, là in alto, il piccolo campanile giallognolo ritto sotto le rupi. Dal piccolo campanile salì collo sguardo alle creste sovreminenti, cercò la punta di dolomia che poteva ricordare quella del Summano guardata da Massimo, nel salone della Montanina, mentre ella suonava «Aveu». Le parve di riconoscerla fra le nebbie, a mezzo della cresta che dal maggior culmine declina verso levante. Il cuore le si gonfiò della divina musica e del grido:


«Or sappi che brucio, che moro di te.»


Come nel giorno precedente, quando, all’entrata delle acque di Valsolda, il vento e i fiotti erano corsi incontro al piroscafo e il nebbione si era rotto sulle montagne, così ora le parlavano le cose inanimate. Quei dirupi e le creste e la piccola punta di dolomia le dicevano: «sei qui». Si alzò in piedi lottando coll’emozione e si rimise in cammino. Pochi passi oltre la chiesa di Loggio, nella gola segreta dove si compongono intorno al sottile argento di una cascata le grazie della romita natura come intorno a una piccola regina, Lelia parve accorgersi della bellezza delle cose, immaginò posar con lui, lontana da ogni sguardo umano, dentro quella recondita poesia e quella musica. Sulla strada di Dasio, oltre Puria, ordinò al ragazzo, che precedeva, di avvertirla se vedesse qualcuno venire alla loro volta. Incont-