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422 CAPITOLO DECIMOSESTO

derise anche per questa stupida viltà, respinse sdegnosamente la immagine che non poteva uscire del suo cuore, che per questi sdegni piegava solo come una fronda piegata dal vento e subito risorgente. Si sforzò di non pensare che al montanaro ammalato cui doveva visitare l’indomani mattina a Muzzaglio, un infelice ridottosi, per causa della mala vita di sua moglie, a vivere solo in una stalla, fuori del consorzio umano. Si alzò all’alba e si mise a studiare in un trattato di medicina il caso di un bambino minacciato di appendicite. Altro riposo non v’era per lui che il chiudersi tutto nelle sofferenze dei suoi pochi ammalati, identificarsi con essi. L’uomo di Muzzaglio, datosi al bere per le sue disgrazie coniugali, semi-ebete, viveva in una tana immonda con quattro capre e una pecora nera, schifoso di sporcizia. Non scendeva a Castello e a Puria che per cambiare il latte in alcool. Quando gli nasceva un capretto o un agnello, le sbornie di acquavite si succedevano spaventose. In paese lo chiamavano l’uomo selvatico. Ora era convalescente di una polmonite e Massimo cercava ogni via di redimerlo dalla sua abbiezione. Aiutato da due buone donne di Dasio, gli aveva fatto una pulizia completa, lo aveva trasportato in una stalla vuota, poichè a Muzzaglio non sono che stalle, sopra un giaciglio umano. Gli recava egli stesso ogni mattina uova brodo e quel po’ di vino di cui non poteva privarlo. Si proponeva di veder la moglie, di persuaderla a riprendersi il marito cacciato di casa come un ubbriacone, di farsi promettere che non venderebbe la pecora nera da lei odiata, com’era il bambinesco terrore di lui quando Massimo gli parlava di pace e di riunione: «La vend la pégora! La vend la pégora!»

Uscì dall’albergo prima delle sette, andò a visitare il bambino, ritornò a prendere il canestro colle uova, il brodo e il vino. A Muzzaglio trovò il convalescente al-