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442 CAPITOLO DECIMOSESTO

mostruoso, patriarca della selva, un cilestrino, tra fronda e fronda, del lago lontano, pieno di sole; finalmente, dove la stradicciuola monta all’aperto, ignude e grandi davanti a lei, le pareti di roccia sopra Dasio, la piccola punta di dolomia, obliqua nel cielo. Visibilmente stanca, avrebbe voluto salire ancora. Massimo non lo permise.

«Leila obbedisce» diss’ella.

A salire verso il monte era pronta sempre; nella discesa avrebbe voluto riposare a ogni passo. Finirono con riderne, l’una e l’altro. Sotto Drano ella si fermò ad ascoltare una piccola voce d’acqua invisibile sotto i suoi piedi.

«Vorrei sapere se ride o se piange» diss’ella. «Lei pensa che ride di me. Io penso invece che piange per me, perchè presto saremo a San Mamette.»

Domandò se andando a San Mamette sarebbero passati dalla cascata veduta la mattina. Udito che no, guardò Massimo ridendo e arrossendo, senza dir parola. Era una breve deviazione e Massimo l’accontentò. Raggiunto alla chiesa di Loggio il viottolo di Puria, lo seguirono nel vallone della cascata.

Là nella gola ombrosa, stretta fra due fauci boscose e chiusa, nel fondo, da una parete di roccia, seduti sull’erba di un picciol dorso in faccia all’obliquo nastro di argento che riga la parete, passarono l’ultima ora dolce del dì memorabile. Si comunicavano amore per le mani congiunte, in silenzio, senza guardarsi.

«È musica di Schubert, tutto questo» disse finalmente Massimo. «Der Müller und der Bach. Un’estate d’amore qui, soli, sempre soli!»

Lelia lo guardò senza parlare, disse cogli occhi l’inesprimibile, sì che Massimo n’ebbe una vertigine. I loro sguardi si disgiunsero, andarono a incontrarsi nella cascata rumoreggiante.

«Mi viene un’idea» disse Lelia. «Vorrei cercare