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468 CAPITOLO DECIMOSETTIMO

partire per Torino l’indomani mattina ma che non sarebbe partita senza il suo permesso. Lo pregò quindi di ritornare la mattina seguente per pronunciare la sua sentenza. Il medico disse a Lelia, fuori dalla camera, che aveva trovato il cuore assai debole e che temeva per la vita.

Alle sei venne Massimo. L’inferma non aveva dolori. Parlava pochissimo. La cugina Eufemia, afflitta di non sentirsi canzonare, guardava ora Lelia ora Massimo con occhi interrogatori, pieni di angustia. Quel silenzio e l’assenza del solito sorriso li atterrivano tutti e tre quantunque nessuno osasse confessarlo all’altro. Alle sette donna Fedele pregò la cugina di uscire e chiamò i due giovani al suo letto. Domandò a Lelia se fossero venute lettere da Velo. No, non era neanche possibile.

Si vedeva ch’ell’aveva inteso preparare un altro discorso e che durava fatica a legarlo con quell’esordio. Pensò alquanto e poi si decise.

«Se Lelia» diss’ella «ha rinunciato a godere della sua sostanza, è inutile discorrerne più. Ma è giovine. Verrà un giorno in cui la Montanina sarà a disposizione vostra. Vi prego di non abbandonarla. E se non temessi di essere indiscreta Vi pregherei anche di far celebrare allora una messa anche per me a Santa Maria dei Monti e...»

S’interruppe, offerse le mani scarne a quelle dei due giovani e ritrovando l’usato dolcissimo sorriso compì la frase: «di assistervi».

Le mani scarne furono strette in silenzio. I belli occhi bruni s’illuminarono. Ella parve ripigliare qualche forza, pregò Massimo di scriverle l’itinerario per l’indomani, se fosse il caso di partire. Lasciando San Mamette poco dopo le dieci, le viaggiatrici sarebbero arrivate a Santhià alle sei del pomeriggio e a Torino verso le sette e mezzo. Massimo le avrebbe accompa-