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472 CAPITOLO DECIMOSETTIMO

nefattore. Avevano fatto venire il piroscafo speciale, a loro spese, a Oria. Vi si erano imbarcate, col parroco, più di cento persone per incontrare il figlio morto di Franco e di Luisa.

All’udire che non si avevano notizie della salma, quella povera gente sbigottì. Poco dopo, il capostazione fece avvertire Massimo che si annunciava da Milano l’arrivo della salma a Porto Ceresio per le otto di sera. Erano allora le due e mezzo. Massimo telegrafò il ritardo a San Mamette. La gente di Albogasio, che prima temeva di avere inutilmente fatto una spesa e perduta una giornata di lavoro, parve contenta, malgrado la prospettiva di quasi sei ore di attesa. Corse qualche mormorìo fra coloro che nè avevano portato con sè da mangiare nè tenevano denaro; ma erano mormorii rassegnati. Quella povera gente avrebbe sofferto la fame senza lamenti, se il buon parroco e Massimo non si fossero posti d’accordo per fornirli almeno di pane. E i prudenti che avevano portato da mangiare divisero il loro cibo. Gentile pietà e gratitudine verso l’estinto, gentile memoria di altri poveri morti, santificazione di questi sensi umani nel desiderio di esprimerli con un atto religioso, solenne dimostrazione di fede candida e profonda facevano tutte le altre bontà nel cuore di quella umile gente, così che Massimo ne fu commosso. Il parroco gli fece conoscere certa Leu che ricordava i genitori di Benedetto e non rifinì di parlargli della sciora Lüisa. Ma gli altri parlavano dell’uomo scomparso anni prima ad Oria senza lasciar traccia di sè e che ritornava ora cadavere. Ricordavano il gran rumore che si era fatto di quella scomparsa, le supposizioni diverse, tutte riuscite vane, il buon prete forestiero che si era adoperato perchè le disposizioni benefiche dello scomparso avessero effetto. Qualche vecchio ricordava