Pagina:Leila (Fogazzaro).djvu/496

Da Wikisource.
484 CAPITOLO DECIMOSETTIMO

riaccesa curiosità, cercando discernere ancora il piccolo schifo che si udiva saltar sull’onde lottando. Non era più visibile. Lo videro un momento dal piroscafo in corsa, nel raggio elettrico della torpediniera. Poi Jeanne scomparve dagli occhi loro per quella notte e per sempre.


IV.



Donna Fedele si era aggravata, quasi improvvisamente, dopo mezzodì. Non aveva dolore. La febbre, fattasi altissima, indicò al medico lo scoppio dell’infezione generale. Nulla si poteva tentare più. La sentenza era segnata e a termine prossimo; quel misero corpo aveva del tutto perduto la virtù di resistere. L’ammalata, perfettamente in sè, comprese il suo stato, volle subito un sacerdote e il viatico. Si chiamò il prevosto di San Mamette. Alle cinque tutto era stato fatto. Il prevosto, edificato della fede, della pietà, della rassegnazione di quella povera signora, le aveva amministrato l’olio santo. Il telegramma di Massimo da Porto Ceresio le fece visibilmente dispiacere. Non lo disse, ma Lelia capì, che, secondo lei, Massimo avrebbe potuto fare a meno di andare a Porto Ceresio. Avuti i conforti religiosi, il ritorno del giovane parve la sua maggiore preoccupazione. Ne domandava ogni momento, tanto che una volta se ne scusò con Lelia.

«Sono una sciocca» diss’ella, prendendole una mano, «perchè, se ha telegrafato così, non può essere qui prima. Vorrei dirgli certe poche parole e ho paura che non arrivi in tempo.»

Lelia cercò di rassicurarla, non seppe. Un groppo di pianto fermo nella gola le impediva di parlare. Invidiava