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vedere una larghissima intenzione politica, tanto da rendere il sommo artista interprete, anzi giustificatore, della condotta del Moro verso l’inetto nipote.

«Coi simboli politici commentò i principali eventi nel Ducato di Milano dal 2 febbraio 1489), data dell’infelice matrimonio di Gian Galeazzo Sforza, alla discesa di Luigi XII.

Il Moro mise il Vinci accanto a Gian Galeazzo e a Isabella d’Aragona per servire ai disegni suoi ambiziosi di dominio»1.

Così da uno studioso molto addentro in cose vinciane, il compianto Solmi, fu affermato, e l’affermazione ha speciale importanza in quanto darebbe al Vinci una parte, e non piccola, negli intrighi politici della Corte milanese, Corte nella quale (s’è volentieri detto e ripetuto), il Vinci primeggiava per l’alto intelletto, la bellissima persona, la facile e suadente parola, il soave canto, l’elette maniere, ma in cui — viceversa — par sicuro ch’egli non abitasse affatto, e non fosse affatto (da quel che si può rilevare dalle scarse tracce che di lui troviamo nei documenti e nelle lettere di quel periodo), in troppa auge, anzi andasse confuso in mezzo alla turba degli ingegneri, degli architetti e degli artisti minori2.

Bernardo Bellincione, un poetucolo buffone e adulatore, poteva, sì, rivolgersi al Duca o al Moro, con insolente familiarità, ma un artista era, a quei giorni, tenuto ancora non molto più che un artigiano. Le attitudini molteplici di Leonardo furon certo sfruttate dal munifico signore, ma più che dell’artista, più che del fantasioso ordinatore di feste sfarzose, il Moro si giovò dell’ingegnere.

Del resto il Vinci, amante della solitudine per speculare a suo agio il dolcissimo vero, sprezzatore nel suo segreto

  1. E. Solmi, La politica di Lodovico il Moro nei simboli di Leonardo da Vinci (1489-1499), in: «Scritti vari di erudizione e di critica in onore di R. Renier», Torino, Bocca, 1912. Già un accenno a questo studio è nel Leonardo edito dal Barbera, 1900, p. 71-72.
  2. Cfr. F. Malaguzzi Valeri, Op. cit., p. 586.