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298 operette morali


7 agosto 1822, Z. 2602 (IV, 329):

Ἔργα νέων, βουλαὶ δὲ μέσων, εὐχαὶ δὲ γερόντων. Verso di non so qual poeta antico, applicabile e proporzionabile alle diverse etá del genere umano, come lo è qualunque cosa si possa dire intorno alle diverse etá dell’individuo. Ed infatti del secol nostro non è proprio altro che il desiderio (eternamente inseparabile dall’uomo anche il piú inetto e debole e inattivo e non curante; per cagione dell’amor proprio che spinge alla felicitá la qual mai non s’ottiene) e il lasciar fare.

5 marzo 1823, Z. 2681 (IV, 374):

Plutarco nel principio degli Insegnamenti civili (volgarizzamento di Marcello Adriani il giovane. Opuscoli 15, T. I, p. 403): «Molto meno arieno ancora gli spartani patito l’insolenza e buffoneria di Stratocle, il quale, avendo persuaso il popolo» (credo ateniese o tebano) «a sacrificare come vincitore; che poi, sentito il vero della rotta, si sdegnava, disse: — Quale ingiuria riceveste da me, che seppi tenervi in festa ed in gioia per ispazio di tre giorni?».

Agli spartani si possono paragonare i filosofi, anzi questo secolo, anzi quasi tutti gli uomini avidi del sapere o della filosofia, e di scoprir le cose piú nascoste dalla natura, e per conseguenza di conoscere la propria infelicitá, e per conseguenza di sentirla, quando non l’avrebbero sentita mai, o di sentirla piú presto. E la risposta di Stratocle starebbe molto bene in bocca de’ poeti, de’ musici, degli antichi filosofi, della natura, delle illusioni medesime, di tutti quelli che sono occupati d’avere introdotti o fomentati, d’introdurre o fomentare o promuovere de’begli errori nel genere umano o in qualche nazione o in qualche individuo.

Che danno recano essi, se ci fanno godere, o se c’impediscono di soffrire per tre giorni? Che ingiuria ci fanno se ci nascondono, quanto e mentre possono, la nostra miseria, o se in qualunque modo contribuiscono a fare che l’ignoriamo o dimentichiamo?

1 febbraio 1821, Z. 593 sgg. (II, 81):

Quid autem est horum in voluptate? melioremne efficit aut laudabiliorem virum? An quisquam in potiundis voluptatibus gloriando sese et praedicatione effert? (Cicerone, Paradoxa, I, c. 3 fine).

Oggi sibbene, o Marco Tullio, né c’è maggior gloria per la gioventú, né scopo alla carriera loro piú brillantemente, manifestamente