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pensieri - lxxi-lxxii 43

LXXI.

Dalla sopraddetta opinione che il giovane ha degli uomini, cioè perché li crede piú uomini che non sono, nasce che si sgomenta ad ogni suo fallo, e si pensa aver perduta la stima di quelli che ne furono spettatori o consapevoli. Poi di lá a poco si riconforta, non senza maraviglia, vedendosi trattare da quei medesimi coi modi di prima. Ma gli uomini non sono sí pronti a disistimare, perché non avrebbero mai a far altro, e dimenticano gli errori, perché troppi ne veggono e ne commettono di continuo. Né sono sí consentanei a sé stessi che non ammirino facilmente oggi chi forse derisero ieri. Ed è manifesto quanto spesso da noi medesimi sia biasimata, anche con parole assai gravi, o messa in burla, questa o quella persona assente, né perciò privata in maniera alcuna della nostra stima, o trattata poi, quando è presente, con altri modi che innanzi.

LXXII.

Come il giovane è ingannato dal timore in questo, cosí sono ingannati dalla loro speranza quelli che avvedendosi di essere o caduti o abbassati nella stima d’alcuno, tentano di rilevarsi a forza di uffici e di compiacenze che fanno a quello. La stima non è prezzo di ossequi: oltre che essa, non diversa in ciò dall’amicizia, è come un fiore, che pesto una volta gravemente, o appassito, mai piú non ritorna. Però da queste che possiamo dire umiliazioni, non si raccoglie altro frutto che di essere piú disistimato. Vero è che il disprezzo, anche ingiusto, di chicchessia è sií penoso a tollerare, che veggendosene tocchi, pochi sono sí forti che restino immobili, e non si dieno con vari mezzi, per lo piú inutilissimi, a cercare di liberarsene. Ed è vezzo assai comune degli uomini mediocri, di usare alterigia e disdegno cogl’indifferenti e con chi mostra curarsi di loro, e ad un segno o ad un sospetto che abbiano di noncuranza, divenire umili per non soffrirla, e spesso ricorrere ad atti vili. Ma anche per questa ragione il partito da prendere