Sig. Conte Stimatissimo e Carissimo
E dura cosa il domandare, e peggio a chi niente ci deve, anzi
di molto ci è creditore. Ma dall’una parte la vostra squisita beni-
gnità, dall’altra la disperazione della mia vita mi fanno forza
ch’io vi domandi e vi preghi, anzi vi supplichi. E prima di tutto
vi chiedo perdono della rozzezza di questo mio scrivere, per-
chè la tristezza dell’animo, e l’angustia delle cose non mi lasciano
tempo nè spazio alla considerazione delle parole.
Io credo che voi sappiate (per la bontà che avete usata d’in-
formarvi delle cose mie) che dall’età di dieci anni, senz’altro
aiuto che l’ignoranza di chiunque ha mai conversato meco, il
contrario esempio de’ miei cittadini, e la noncuranza di tutti,
io mi diedi furiosamente agli studi, e in questi ho consumata
la miglior parte della vita umana. Ma forse non sapete che degli
studi non ho raccolto finora altro frutto che il dolore. La debo-
lezza del corpo; la malinconia profondissima e perpetua dell’a-
nimo; il dispregio e gli scherni di tutti i miei cittadini; e per
ultimo, il solo conforto che mi restasse, dico l’immaginazione,
e le facoltà del cuore, anch’esse poco meno che spente col vigore
del corpo e colla speranza di qualunque felicità; questi sono i
premi che ho conseguiti colle mie sventuratissime fatiche. La
fortuna ha condannato la mia vita a mancare di gioventù: per-
chè dalla fanciullezza io sono passato alla vecchiezza di salto,
anzi alla decrepitezza sì del corpo come dell’animo. Non ho mai
provato da che nacqui un diletto solo; la speranza alcuni anni;
da molto in qua neppur questa. E la mia vita esteriore ed inte-
riore è tale, che sognandola solamente, agghiaccerebbe gli uomini
di paura.
I miei genitori i quali vedono ch’io mi consumo e distruggo
in questa prigione, e che vivendo sempre sepolto in un paese,
dove non è conosciuto neanche il nome delle lettere, se avessi