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280 EPISTOLA RIO righe della tua lettera in’è paruto che la forma (le’ caratteri dimostrasse un certo stento. Sai pur bene coni’ io desideri le tue lettere: ma se lo scrivere ti dà pena, fammi questo favore, non soffrirla per mia cagione: basterà ch’io sappia le tue nuove il meglio che si potrà. Non è volta ch’io scriva al Brighenti, e non gli parli di te, ma certo non credo ch’egli t’abbia renduti fedelmente tutti i saluti eli’ io ti mandava per mezzo suo.1 Della salute ho cura più che non merito né la mia né quella di nessun uomo. Da Marzo in qua mi perseguita un’ostinatissima debolezza de’ nervi oculari, che m’impedisce non solamente ogni lettura, ma anche ogni contenzione di mente. Nel resto mi trovo bene del corpo, e dell’animo, ardentissimo e disperato quanto mai fossi, in maniera che ne mangerei questa carta dov’io scrivo.2 E quel tuo povero amico? 3 tristi noi, tristi noi! Non ho più pace, né mi curo d’averne. Farò mai niente di grande? 4 né anche adesso che mi vo sbattendo per questa gabbia come un orso? In questo paese di frati, dico proprio questo particolarmente, e in questa maledetta casa, dove pagherebbero un tesoro perché mi facessi frate ancor io, mentre, volere o non volere, a tutti i patti mi fanno viver da frate, e in età di 21 anno, e con questo cuore eli’ io mi trovo, fatevi certo ch’in brevissimo io scoppierò, se di frate non mi converto in apostolo, e non fuggo di qua mendicando, come la cosa finirà certissimamente.6 Alcuni giorni fa m’arrivarono da Bologna la Cronica del Compagni, la Vita del Giacomini e la Congiura di Napoli. Ma quanto a leggergli è tutt’uno. Solamente a forza di dolore sono riuscito a leggere YApologia di Lorenzino de’ Medici, e confermatomi nel parere che le scritture e i luoghi più eloquenti sieno dov’altri parla di se medesimo. Vedete se questi pare contemporaneo di quei miserabili cinquecentisti ch’ebbero fama d’eloquenti in Italia al tempo loro e dopo, e se par credibile che l’uno e gli altri abbiano seguito la stessa forma d’eloquenza. Dico la greca e latina che quei poverelli a forza di sudori e d’affanni trasportavano negli scritti loro cosi à spizzico e alla stentata ch’era uno sfinimento, laddove costui ce la porta tutta di peso, bella e viva, e la signoreggia e l’adopera da maestro, con una disinvoltura e facilità negli artifizi più sottili, 1 Nella copia ora:» eli’ io gli ho mandati perché te li rimettesse». 2 Nota questa forte espressione, che spiega il prossimo disperato tentativo della fuga. 3 Allude alla morto del conte dal Toso. ■t Cfr. l’abbozzo d’un’altra elegia (in Scritti fari inai, cit., p. 48) di un anno prima, ove G. parimenti si domanda con desiderio o speranza:» Misero me che ho fatto? Àncora nessun fatto grande ecc. >. 6 II disegno della fuga appare, da queste parole, ormai deciso nella mente di G.