Pagina:Leopardi - Paralipomeni della Batracomiomachia, Laterza, 1921.djvu/78

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67 i - versi

     Ve’ la pelle, al bussar, mareggia e guazza
lo spenzola pel rampo a la girella:
lo sbuccia tutto quanto e lo dipella:
8e ’l dissangua, lo sbatti e lo strapazza.
     Sbarralo, e tra’ budella e tra’ corata,
tra’ milza, che per fiel piú non ammale,
11e l’entragno gli sbratta e gli dispaccia.
     D’uno or vo’ ch’e’ riesca una brigata:
gli affetta l’anca e ’l ventre e lo schienale,
14e lo smembra, lo smozzica lo straccia.
                    Togliete, oh chi s’affaccia:
ecco carni strafresche, ecco l’argnone:
17vo’ mi diciate poi se saran buone.


Questi sonetti, composti a somiglianza dei Mattaccini del Caro, furono fatti in occasione che uno scrittorello, morto or sono pochi anni, pubblicò in Roma una sua diceria, nella quale rispondendo ad alcune censure sopra un suo libro divulgate in un giornale, usava parole indegne contro due nobilissimi letterati italiani che ancora vivono. Come nei Mattaccini del Caro sotto l’allegoria del gufo e del castello di vetro dinotasi il Castelvetro, parimente in questi sonetti disegnasi il detto scrittorello sotto l’allegoria del manzo. Il nome del beccaio è tolto dalla Cronica di Dino Compagni, la quale fa menzione di un beccaio fiorentino di quei tempi, detto per soprannome il Pecora.