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D’ISABELLA ANDREINI. 95

so sdegno havea già liberato dalle sue forze; ma s’io ben considero la gloria della mia nuova prigionia non è sua. Egli invero non havrebbe havuta giamai vittoria del cuor mio, ch’io l’havrei continuamente contra lui difeso; ma voi Signora mia siete stata cagione di questa perdita; per voi mi chiamai vinto, & à voi sola mi rendei prigioniero. Voi tendeste l’arco, voi arruotaste gli strali, voi deste ardor alle faci, voi tempraste le catene, & annodaste le reti, ond’Amore di nuovo piagò, arse, incatenò, & avvinse l’anima mia. Non vada superbo dunque, e non rida il fiero delle mie sventure, e de’ miei tormenti vedendomi un’altra volta, con tanto mio dolore, tiranneggiato sotto ’l suo Impero, che questo non è avvenuto per la sua possanza, della quale io havea perduta ogni tema; e s’egli nol crede, lasciatemi voi cuor mio nella mia dolce libertà, nè ritenete prigioniera l’anima mia ne’ bei vostri occhi, e venga poi meco quest’altiero in campo, & avvedrassi ben tosto, che ’l suo arco, sarà senza corda, i suoi strali senza ferro, le sue faci senza calore, le sue catene senza tempra, le sue reti senza nodi, & egli stesso veramente cieco, nudo, con l’ali tarpate, e non men privo di forza, che di giuditio. Ma ohime, ch’egli è troppo astuto, onde non si ridurrà mai à quest’atto, conoscendo troppo bene, che quanto egli può in me sol’avviene per lo splendore, e per la virtù de gli occhi vostri, i quali schivò di veder l’anima mia, à tutto suo potere prevedendo, come divina, che da loro, e da voi dovea in breve avvenirmi ogni tormento. E quante


cose