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D’ISABELLA ANDREINI. 103

Della compassione.


P

Erche il nudrir continuamente il mal nel cuore senza mai allontanarlo, altro non è, che un voler disperatamente morire, io ho determinato di non lasciar più al silentio il mio pericolo, poiche amando, e tacendo, mi sento miseramente venir meno. Se chiudendo il mio dolore, conosco che in vano sospiro, e ’nvano aggiungo al pianto lagrime, & al lamento querele: voglio tentar, s’io posso, palesando il mio fuoco, di trovarci alcun rimedio, e se fiamma rinchiusa arde con maggior possanza che non fa quella, che in aperto campo si trova, non ha dubbio, che s’io non impetrerò per refrigerio del mio ardore la vostra pietà, che almeno essalerà in parte questo grande, e smisurato fuoco. Io dunque vengo (dolcissimo Signor mio) con quell’lhumiltà, e con quell’affetto maggiore, che per me si può, à palesarvi quell’amore, ch’io v’ho portato, porto, e porterò, mentre ch’io viva. Contentatevi dunque di non haver à sdegno questa divotione dell’animo mio, con la quale mi v’inchino, e non m’accusate di troppo ardita, se rompendo l’aspre e severe catene del timore, vengo con questa carta à discuoprirvi l’interna mia passione, ch’io non ho potuto far di meno. Da voi aspetto giusta mercede, e spero, che voi sarete e stella propitia, e vento secondo, e porto felice à questa mia, nell’amoroso Mare agitata Navicella; e mi giova


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