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D’ISABELLA ANDREINI. 113

solo di non poter dir morendo la cagione della mia morte. Ohime, che quando voi stessa (dolce Signora mia) mi dimandaste, per qual cagione io porto così languido il ciglio, così mesta la fronte, e così scolorita la guancia (chiarissimi segni della vicina mia morte) dubitando di non offendervi, non ardirei di dire, che ciò m’avvenisse per amarvi. Ben è vero, che quando io cominciai ad arder per voi mi feci à credere, che fosse sovverchio il servirsi della lingua, per manifestar le passioni del cuore, perch’io non v’ho mai conosciuta Donna; ma Dea; e come à gli Iddij son palesi tutti i nostri pensieri, benche chiusi nel centro dell’anima, così pensai, ch’esser dovessero à voi, e forse che sono: ma voi, che siete come nella bellezza, e nella bontà, simile à gli Iddij: volete anch’esser loro simile ne i costumi. Essi benche sappiano i bisogni nostri, vogliono intendergli per mezo delle parole, e tallhor delle lagrime, così voi, beche conosciate il mio male, volete per avventura, ch’io ’l vi dica, e volete, ch’io pianga prima, che rimediarvi. Ciò farei volontieri; ma la presenza vostra m’empie così di riverente orrore, che tutto tremo, mi scorre un freddo rigor per l’ossa, si smarriscono i sensi, perdo la ragione, s’agghiacciano le lagrime, e si fa smalto la lingua, e sò, che tutto questo m’avviene, per esser troppo conoscitor del vostro merito, e della mia indegnità; ond’io procuro di celar la mia fiamma, e mi dispiace, ch’io non posso tanto chiuderla nel profondo del cuore, ch’ella alcuna volta, mal mio grado non voglia mostrarsi nel volto, e ne gli occhi, non


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