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D’ISABELLA ANDREINI. 145

troppo si cambia il mio dolore: ma di cattivo in peggiore, e di noioso, & aspro in pessimo, e ’ntolerabile: ond’io sotto questo gravissimo peso solamente sono stanco: ma hoggimai hò co’ miei duri lamenti stancate le Città, le Ville, i Monti, le Valli, i Fiumi, i Mari, i Prati, i Boschi, e finalmente l’infaticabil Echo. Hora sì, che la Morte può esser giustamente chiamata sorda, poich’io col gran rumor di quelle strida, con lequali continuamente la chiamo per terminar tanti affanni, l’hò fatta sorda, non men di quello, che si faccia il rumor del Nilo cadente, gli habitatori vicini. Ma com’esser può, ch’essend’io stanco dal duolo, e che havendo (colpa sua) stancate tutte le cose, egli parimente non sia stanco di stancarmi? qual Hidra, e di qual nuova natura è questa, che non dalla sua; ma dalla mia morte nuova vita riceve? ò fiera doglia, che non sostieni mutatione quando sarà, che mi levi da i vivi? ò quando sarà, ch’io truovi luogo tanto rimoto, che tu non mi trovi? quando sarà ò dispietata mia pena, che tu chiuda col fine de gli amari miei giorni le dure porte à i sospiri, & alle lagrime? ò termina questa tormentata vita, ò di tanti martiri c’hai per compagni contentati, e fà, ch’i’ possa veder trà loro un sol piacere: ma tu che godi d’esser solo nella somiglianza à te simile, non vuoi nella tua schiera alcuno, che non ti rassembri, onde sperar non non posso, che da tante parti, che m’ha piagate, una sola ne risani: ma tù ò Amore non folle, che ingiusto perche con tanto rigore mi saetti, e m’infiammi? troppi dardi, e


Oo          troppo