Pagina:Lo zuavo.djvu/23

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molti dei nostri, estenuati dalla ferocia dei nostri carnefici, resi quasi pazzi, non vedendo verun altro mezzo d’evitare i loro colpi, s’ingegnavano d’eccitare ancora la loro perversità, sperando di finirla così sotto i colpi dell’yatagan. Io mi provava di dar loro consolazioni e speranza, ma se mi fu dato di salvarne alcuni dalla disperazione, altrettanti mi respinsero aspramente. Quant’erano da compiangere!

«Finalmente Tlemceu apparve agli occhi nostri. Questa città, colle sue contrade strette e storte, ma piene di bei giardini ornati di pergole, è rinfrescata da numerose fontane. Era per noi una specie di rifugio, e speravamo qualche sollievo alle nostre sofferenze. Ma le nostre speranze furono vane.

«Ci fecero per qualche tempo lavorare alla fonderia dei cannoni, poi c’inviarono verso il sud, circa venti leghe lontano, per la costruzione d’una fortezza. Il pugno d’orzo quotidiano che facevano cuocere nell’olio rancido, non era sufficiente pel nostro sostentamento; profittavamo delle corse che ci facevan fare nella selva, per raccoglier della ghianda, nel tempo che facevamo il fascio di legna, ch’eravamo tenuti di riportare alla fortezza. Ma questa povera risorsa ci mancava spesso; così, privi di tutto, obbligati di dormire sulla terra nuda, senza una coperta per ripararci dal freddo eccessivo delle notti, due o tre dei nostri camerata morivano ogni giorno. Ci era ben permesso di sotterrarli, ma le nostre mani, divenute troppo deboli, non potevano scavare profondamente le fosse, e le bestie feroci se ne nutrivano.

«Ci impiegarono quindi a far dei solchi per le biade. Un giorno che i guardiani s’erano alquanto scostati, mi venne l’idea di prendere la fuga. La combattei, dicendomi, che avendo saputo resistere alle torture, dovea pure rimanere per consolare moralmente i miei compagni d’in-