Pagina:Loti - Pescatori d'Islanda.djvu/91

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mento si sentiva cadere a bordo dei grossi pesci; lanciati sulle panche con grande strepito. Il marinaio, che rompeva loro il ventre col gran coltello, nella sua precipitazione, si tagliava le dita ed il suo sangue molto rosso si mischiava alla salsina.


Capitolo Decimo.


Resterono dieci giorni avviluppati nella nebbia, spessa, senza poter vedere niente; la pesca continuava ad essere buona e non si annoiavano. Di tanto in tanto, ad intervalli regolari, uno di essi soffiava in una tromba di corno cui usciva un suono rauco di bestia selvaggia.

Qualche volta, da lontano, dal fondo delle nebbie bianche, un altro rumore simile rispondeva al loro appello. Allora vegliavano dippiù. Se il grido si avvicinava, tutte le orecchie si tendevano verso quel vicino sconosciuto, che non scorgevano e di cui la presenza era sempre un pericolo.

Facevano delle congetture su lui; diventava un’occupazione per essi, e, per il desiderio di vederlo, si sforzavano a penetrare le impalpabili nuvole bianche che restavano tese da per tutto nell’aria. Ma si ritrovavano sempre soli nel silenzio.

Tutto era impregnato di acqua, tutto era pieno di sale e di salsedine; il freddo diventava più penetrante; il sole si attardava di più a trascinarsi sull’orizzonte. Ogni mattina sondavano le acque per vedere se la Maria stesse troppo vicina all’Islanda, ma tutte le canne non arrivavano a toccare il letto del mare, si era dunque bene al largo e in pieno mare profondo.

Quel freddo più piccante aumentava il benessere della sera, rendeva più piacevole l’impressione di calore che ritrovavano nella cabina di legno massiccio quando vi scendevano per cenare o per dormire.

Di giorno, quegli uomini, che erano più rinchiusi dei