Pagina:Lucifero (Mario Rapisardi).djvu/225

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canto undecimo

760Fuggon le Grazie; e n’ha dal ciel spavento
L’angelo di Catania e il Pesarese.

    Ma chi il senso dell’arte in petto ha spento
E ferreo core ed asinini orecchi
Catechizza le turbe al gran portento.

    765O tu, se il genio tuo mai non invecchi,
Vivo onor di Busseto, all’empie grida
Piegherai vinto, e fia che in lui ti specchi?

    Sorgi; all’antica melodia confida
Gli estri, ond’uomini e tempi animi e crèi,
770E lascia i dotti ragli al nuovo Mida!

    Nè fia che in voi non vibri i dardi miei,
O dell’onnipossente Arte dei carmi
Sacerdoti non già, ma Farisei.

    Sento tra una venal turba chiamarmi
775Chi d’alma vuoto e d’onestà digiuno
Libertà grida, e il vulgo aízza all’armi;

    E chi in aspetto di plebeo tribuno
Giambi saetta avvelenati e cupi,
E fuor di sè non trova onesto alcuno:

    780Idrofobo cantor, vate da lupi,
Che di fiele bríaco e di lièo,
Tien che al mio lato il miglior posto occùpi.


    E veggio lo svenevol cicisbèo,
Che, d’ingegno ventoso e di cor frollo,
785Gratta la cetra in suon di piagnistèo;

    E incipriato le chiome e torto il collo,
Co’l ciglio imbambolato e il guardo losco,
Va a confettar gli stronzoli d’Apollo.

    E tu chi sei, che chiudi il viso fosco
790Nella larva di Plauto, e stenti e sudi
A condir vuote ciance in sermon tosco?

    Ben altri stenti omai, ben altri studi



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