Pagina:Lucrezio e Fedro.djvu/81

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di Tito Lucrezio Lib. V. 67

     Egli a’ Numi immortali opre sì fatte
     Diede, e lor l’ire aggiunse, le vendette!
     Quanti, oh quanti esso allor pianti a se stesso,
     1775Quante a noi piaghe acerbe, e a’ minor nostri
     Quante, e quai partorìo lagrime amare?
     Nè punto ha di pietà, che il sacerdote
     Spesso velato il crin verso una sorda
     Statua per terra si rivolga, e tutti
     1780Corrano al sacro altar; nè, ch’ei s’inchini
     Prostrato al suolo, e tenda ambe le palme
     Innanzi al tempio a i Numi sacro, e l’are
     Di sangue di quadrupedi animali
     Sparga in gran copia, e voti aggiunga a i voti.
     1785Anzi è somma pietade il poter tutte
     Mirar le cose, e con sereno ciglio,
     E con placido cor: che mentre ergendo
     Gli occhi, ammiriam del vasto mondo i templi
     Celesti alti e superni, e l’Etra immobile
     1790Tutt’ardente di stelle, e viene in mente
     Dell’aureo sole, e della luna il corso;
     Tosto dagli altri mali oppresso anch’egli
     Quel nojoso pensier di mezzo al petto
     Il già desto suo capo al cielo estolle;
     1795E qual forse gli Dei potere immenso
     Abbiano occulto a noi, che in varie guise
     Ruoti i candidi segni, egro sospira.
     Posciachè il dubbio cor dall’ignoranza


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