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240 la lotta dei colossi


Cianalòt scomparve entro una eruzione terrorizzante di pietre, di vampe, di detriti, di terra, di schegge, e il fumo balzava su a colonne, a getti, a sprazzi altissimi, per fondersi in immani cumuli, gialli, densi e pigri.

La violenza delle esplosioni era tale, che delle scaglie di roccia grandinavano sulle nostre stesse posizioni. I soldati nostri dovevano tenersi al coperto dietro alle anfrattuosita del Pizzo Occidentale, per non essere colpiti dalle pietre che quel furore di fuoco proiettava tutto intorno. I reticolati sparivano. Paletti di acciaio divelti, ancora uniti da fili, roteavano in aria sibilando. Le trincee di cemento erano qua e là intaccate, sbocconcellate, sbrecciate, in qualche punto anche sfondate. Otto ore consecutive durò quel fiammeggiante uragano di acciaio.

Alle tre del pomeriggio il bombardamento cessò.

Dietro ai ripari i nostri soldati aspettavano quel momento, il fucile nel pugno, la baionetta inastata. Nel silenzio improvviso echeggiò l’urlo possente dell’assalto. Dalle vette le nostre truppe precipitarono giù follemente, a salti, a balzi. «Pareva — dicono gli ufficiali — una frana d’uomini». Una frana grigia, tumultuosa, vivente, ululante.

I più agili arrivarono prima. La discesa disseminò i reparti. Si vide allora, avanti a tutti, a duecento passi dai compagni più vicini, so-