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il passo di montecroce 265


zino allo scoperto se vogliono tentare una conquista.

Possono bombardarci quanto vogliono, aumentare in proporzioni esorbitanti la loro avanguardia di esplodenti, l’ora suona in cui i rifugi debbono essere lasciati per farsi avanti. È l’ora che i nostri aspettano silenziosamente. È l’ora del cuore. Non sempre ci si difende col fuoco dall’assalto che inerpica. Le baionette si inastano, poi con un grido selvaggio i nostri balzano sulle trincee e si gettano giù, a valanga. Il nemico precipita indietro, lascia i suoi morti, i suoi feriti, i suoi fucili, e da dietro i macigni spuntano mani levate di gente che si rende. E questo non una volta, non due; quando leggete nella nobile sobrietà della prosa di Cadorna che avvenne «il consueto attacco» al Freikofel, al Pal Grande, al Pal Piccolo, dovete immaginarvi queste scene sugli orridi costoni di Montecroce, grandiose e terribili come la penna non potrà mai dire, tumultuanti nel pallore di un’alba, o in una notte di tempesta illuminata dalla luce fantastica di bengala librati nell’aria dai razzi.

Poi si combatte per i morti.

I nostri alpini, specialmente, hanno per il cadavere una reverenza eroica, un culto antico e solenne che fa della sepoltura un dovere sacro. Compiono follìe di valore per raccogliere piamente i loro caduti. Dicono che il morto vuole riposo, e reclamano dai superiori il di-