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280 dove il combattimento non ha soste


volta si avanza pure, sempre per pazienti trasformazioni, cercando che i profili delle opere di difesa non si levino a mutare troppo la fisionomia selvaggia dei luoghi.

Si profitta di ogni macigno, di ogni sterpo, e si cerca, per analogia, di quali macigni e di quali sterpi il nemico potrebbe profittare. Ridotte, cunicoli di passaggio entro i quali si striscia, tenebrose casamatte nelle quali la vigilanza si apposta, rifugi blindati, spiazzi aperti e alti per il lancio delle bombe, seguono piani capricciosi che rispondono alle necessità di una tattica minuscola, una tattica da fiere rintanate.

Groppe di pietroni, sporgenze di massi macchiate di licheni, crepacci profondi, arbusti, rovi, formano fra le trincee nostre e quelle nemiche un terreno spezzato, confuso, fantastico, che solleva ferocemente sul suo pietrame cinereo gruppi di cadaveri, avanguardie di morti, drappeggi flaccidi di uniformi azzurrastre che conservano incerte forme umane, e dai quali spuntano piedi distorti, mani disseccate. Segnano i limiti sui quali gli assalti nemici furono fermati. Qui soltanto i viventi sono sepolti.


Fra le schiere trincerate, tutto è funebre, tetro, immobile, morto. Le piante stesse non hanno più vita, torcono moncherini di rami nudi, cincischiati, neri, e le reti dei fili di ferro si stendono come enormi ragnatele sopra un