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298 monte nero


L’avanzata oscillò, rallentò, il grido del nemico divenne un urlo di furore, alto, feroce. L’assalto era così vicino che, dopo un istante di incertezza, i nemici intuirono l’impossibilità di ritirarsi sotto a quel fuoco lungo la costa prativa e scoperta. Si buttarono di nuovo avanti, impetuosamente. Pochi passi ancora, e la schiera più avanzata non esisteva più. L’attacco si fermò definitivamente in una tragica e disperata confusione.

Il piombo mieteva sempre. L’erba si costellava di corpi. Anche i vivi, gl’incolumi, si gettarono a terra scavandosi in fretta dei ripari, e cominciarono a rispondere al fuoco, disordinatamente.

Allora un grido formidabile echeggiò sulle trincee: i nostri scavalcavano i parapetti. Era il contrattacco. Precipitarono giù alla baionetta. Ogni resistenza cessò. I nemici che avevano ancora un po’ di forza sollevarono le mani. Del battaglione non rimanevano che poche centinaia di uomini inebetiti dal disastro. Non uno potè fuggire.

Il colonnello che comandava la colonna, un fiero magiaro dai baffi brizzolati, fatto prigioniero, si muoveva come un automa, dignitoso e pallido, con una stupefazione negli occhi; ma ogni tanto si fermava, si accasciava e piangeva. Quando entrarono nelle zone abitate, giù nella valle, i soldati che lo scortavano si munirono di una poltrona e se la portavano die-