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318 la conquista della conca di plezzo


Pare un episodio delle vecchie guerre. L’ufficiale era di cavalleria, innamorato della sua arma. Pensò che la rapidità può valere in certi casi più della invisibilità, e partì a cavallo, attraverso dei vigneti e dei frutteti, seguito dalla sua fedele ordinanza. Trovò Plezzo già quasi abbandonata dalla popolazione; lo scalpitìo degli zoccoli risuonava fra case deserte. Ad ogni angolo di strada, l’ufficiale rallentava il passo e si sporgeva sul collo del cavallo, per scrutare avanti. Niente, una via dopo l’altra si aprivano vuote e silenziose. Giunse sulla piazza, affidò le cavalcature al soldato e si diresse alla chiesa. Una specie di sacrestano, spaurito, gli aprì la porta del campanile.

Erano le prime ore di una mattinata purissima. Dalla cella delle campane, alla quale salì per vecchie scalette di legno, si vedevano i trinceramenti austriaci, così vicini e netti che pareva si potessero toccare stendendo il braccio. Il binocolo in una mano, un lapis nell’altra, l’ufficiale guardava e scriveva. Tracciava sulla carta topografica appunti e segni. Scorgeva le posizioni dello Svinjak, scorgeva le posizioni dello Javorcek, spingeva le sue ricerche nel cavo delle valli intermedie, calcolava, telemetrava, senza accorgersi dello scorrere del tempo. Intanto degli austriaci entravano in perlustrazione a Plezzo.

Una pattuglia nemica, arrivata dalla parte