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390 sull'isonzo e sul carso


estingue. Il nemico fugge. È inseguito, e quando i nostri ritornano verso Sagrado, sospingono una lunga mandria di prigionieri.

All’alba, il ponte sul primo braccio del fiume è quasi finito. Non mancano che tre campate per toccare l’isola. Si lavora con furia, con febbre, correndo; è una perpetua processione veloce di tavole e di assi, oscillanti sulle spalle dei soldati, che va verso la testata del ponte. Subitamente, un inferno di esplosioni. L’artiglieria nemica aggiusta, il tiro sull’ultima campata, dove il lavoro più ferve. Degli uomini cadono; delle barche di lamiera, forate dalle schegge, si riempiono rapidamente d’acqua e; affondano trascinando pezzi di ponte con uno scricchiolìo di legname spezzato, sfasciando travature, facendo saltare legamenti di ferro. Il lavoro è sospeso. La riva diviene deserta.


Il danno non appare irrimediabile. I cannoni nemici hanno cessato la devastazione. Due terzi del ponte sono intatti, e le campate distrutte alla testa possono essere rifatte. Non c’è tempo da perdere. Il fuoco austriaco imperversa adesso sull’isola e sulla riva sinistra. È un uragano di fucilate e di cannonate. Il furore di batterie e di battaglioni si concentra su quelle piccole zone, che un’oscillazione lenta di fumo va ricoprendo. Le nostre avanguardie isolate sono là sotto. L’artiglieria italiana tempesta, ma i cannoni austriaci ben nascosti continuano. Le