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404 sulle pendici del carso


Eravamo padroni dell’Isonzo. Un altro ponte era gettato, sotto a cannoneggiamenti furibondi ma vani perchè ciechi. Si preparava la battaglia di luglio, quella battaglia smisurata che ci ha portati sull’altipiano attraverso innumerevoli assalti, dopo i quali si vedevano scendere alla pianura in lunghe colonne reggimenti e reggimenti austriaci, prigionieri.

Da Gradisca ho potuto avere una visione delle vicine pendici conquistate, che la cima di San Michele sovrasta. Gradisca offre una delle più tragiche scene della guerra. Perchè non è completamente distrutta. È ferita, squarciata, ma poche delle sue case sono crollate, poche sono morte; quasi tutte conservano una paurosa e inesprimibile espressione di vita, di sofferenza, di terrore, di agonia. Le macerie che si vedono qua e là, sono meno sinistre delle abitazioni ancora in piedi che si allineano lungo le vie deserte, sulle quali, dalle finestre sfondate dalle esplosioni, da quei loro occhi sbarrati e vuoti, lasciano cadere uno scintillìo di vetri infranti, come un luccicare di lacrime.

La maceria è il passato, è la tomba, sorprende ma non commove, e la solitudine intorno a lei appare lugubre ma naturale, come nei cimiteri. Fra quelle case senza abitanti, per le strade senza passanti, nella città dilaniata e fuggita, percossa da un perpetuo grandinare di piombo, v’è un senso misterioso di angoscia, qualche cosa di palpitante, un prodigioso alito