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428 sulle pendici del carso


che lo abbia scaraventato sulla testa dei nemici.

Le trincee formano un saliente che spinge arditamente all’attacco del monte una testa arrotondata, la quale simula quasi quel ferro di cavallo che il bosco non forma più. Si seguiva tutta la vita del trinceramento, l’andare e il venire lento e indifferente dei soldati dietro ai muri di riparo, l’affaccendarsi di lavoratori in opere di rafforzo, e presso alle feritoie una immobilità statuaria di vedette e di tiratori. Per un incamminamento salivano, calmi, a passo da montagna, i portatori del rancio, con le loro pentole fumiganti.

In molti settori della guerra ho avuto una impressione di solitudini truci immerse in paurosi silenzi sovrumani. Ma di fronte al Carso no. Di fronte al Carso, in qualunque punto, si sente la massa che vive e la guerra che palpita. Una ostilità martellante pulsa come una febbre. Si direbbe che la nostra fronte toccando il mare attinga dall’Adriatico vigori e impeti maggiori per avventarsi contro le alture feroci. La battaglia non ha più date, è la battaglia del Carso, una lotta gigantesca sugli spalti della immane fortezza che la sopraffazione ha dato al nemico, e dalla quale a passo a passo è scacciato. Il rombo di questa bufera è udito talvolta nelle città tranquille e lontane della pianura veneta.

Nel buio profondo della notte di Udine a