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atto terzo 197


di me, de’ miei, dell’esser mio ben può

facilmente trovar riscontri certi.
Mi fa restar tutto sorpreso e ontoso.
Idalba.   Signore, non si offenda; abbiamo indizi
grandi ch’ella si celi e per suoi fini
si finga un altro e non voglia scoprirsi.
Ermondo.   Comán un altro? Dunque io non ci
sarò piú e sará venuto un altro
ne la mia pelle in cambio mio? Che? forse
per quest’abito unito. . . . .
Anselmo.   Unito, o
separato, convien ci dia sicure
pruove de l’esser suo.
Ermondo.   Ben vedo come
perdo il mio tempo.
Anselmo.   Perda il suo, o perda
quel d’altri, la faccenda sta cosí.
Ermondo.   Mi farebbe giurar.
Idalba.   Questo vuol dire
bestemmiare, imparailo l’altra sera.
Anselmo.   A le corte: ha ella lettere d’Ortensio?
Ermondo.   Io le dimando perdóno.
Anselmo.   Ha ella lettere?
Ermondo.   Io le dimando perdón.
Anselmo.   Le perdono
per tutto un anno, ma risponda ormai.
Idalba.   Con quel suo modo viene a dir di no.
Anselmo.   Ella in fine non fu mai Flavio Trinci?
Ermondo.   Che il diavolo m’amporti, se ’l conosco.
Anselmo.   Gli credo, dice il vero, non è quello;
era soverchio far tante ricerche,
bastava ciò che disse il servitore
de l’altro. Or dunque mi convien parlare
in altro tuono: Signor mio gentile,
da ora innanzi vi contenterete
di non metter piú il piede in casa mia