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mezza dozzina di fiammiferi. — Sì, la Mina Pernetti Silla, bella donna, bellissima donna! è stata veramente amica di Cesare, ma una amica!... — Il commendatore gittò in alto una boccata di fumo, l’accompagnò su con l’occhio e con la mano disegnando in aria degli zeri allegorici.

— Lei — proseguì— era figlia di un consigliere d’appello tirolese. Sai che Cesare fu espulso di Lombardia nel 1831? Credo che volesse liberarar l’Italia per potersi sposare poi senza scrupoli quella tirolesina bionda. Ell’avrà avuto un ventidue anni. Il papà l’avrebbe arrostita piuttosto che darla a un liberale. Lei tenne saldo, povera ragazza, a non volersi maritare, fino a ventisei anni. Suo padre, un mastino, credo che la mordesse. Un bel giorno piegò il capo e prese un figuro, un austriacante marcio che fece denari con le imprese e poi se li mangiò tutti, andò via con i tedeschi nel 59 e dev’esser morto a Leibach, credo. La Mina e Cesare non si videro mai più, ma si scrissero sempre non d’amore, veh! neppur per sogno. Quello lì? Quello lì è un giansenista che non va a messa. Ella non gli scriveva che di suo figlio, lo consultava. È morta nel 58, e tutto questo io l’ho saputo dopo, da un’amica sua. Ora domando io se è chiaro. Domando io cos’ha da temere la marchesina di Malombra, che ragioni aveva...

— Sì, sì, sarà tutto vero, vuol dire che lei non sa le cose a questo modo. Ma poi, come mi parli di ragioni in una testolina così bella? Non vedi, perdio! che occhi? Lì dentro ci sono tutte le ragioni e tutte le follie. Averla per un’ora, una donna così bella e così insolente! Si deve impazzire di piacere.

— Peuh! — disse il letterato — è troppo magra.

Ma l’onorevole deputato fece di questa censura una confutazione così scientifica che non può trovar posto in un lavoro d’arte.



Malombra. 9