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— Ha famiglia?

— Signor no. Cioè...

A questo punto le ruote di destra saltarono sopra un grosso mucchio di ghiaia.

— Taci e guarda dove vai — disse il viaggiatore.

Colui tirò giù bestemmie e frustate a furia sulla povera bestia, che prese il galoppo.

Passarono sopra un torrente. Sul ponte faceva chiaro. A destra si vedeva la striscia biancastra delle ghiaie perdersi per campagne sterminate; a sinistra e di fronte umili colline appoggiate ad altre maggiori; dietro a queste, gioghi cornuti che spiccavano sul cielo grigio.

Non si udì più che il trotto del cavallo e, di tempo in tempo, lo scrosciar della grossa ghiaia sotto le ruote e l’abbaiar dei cani rinchiusi. Cavallo, cocchiere e viaggiatore procedevano silenziosi insieme, come portati dallo stesso intento allo stesso fine: porgendo immagine così dei fragili accordi e delle meditate alleanze umane, poichè il primo tendeva segretamente alla dolcezza della tepida stalla, il secondo a un certo vino di una certa rubiconda ostessa, buon vino, spumante di risate e di franchi amori; e colui ch’era il più intelligente e il più civile dei tre, non conosceva affatto nè la propria via nè la meta.

Corsero fragorosamente attraverso paeselli oscuri, deserti, dove le case pareano difendere accigliate il sonno della povera gente; passarono davanti a giardini, a piccole ville vanitose, in fronzoli, che avevano un’aria sciocca nell’ombra solenne della notte, Dopo un lungo tratto di pianura la strada saliva e scendeva poggi che parlavano del sole e parevano guardar tutti là verso l’oriente; finchè sguisciò dentro una valle angusta e scura tra selvosi fianchi di monti. Ne radeva talvolta l’unghia estrema, talvolta se ne torceva lontano come per ribrezzo di quell’ispido tocco; alla fine vi si gettò risolutamente addosso. Il cavallo si mise al passo, il vetturale saltò a terra e disse chiaramente colla sua frusta sbaldanzita: è un affar lungo.