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Pagina:Malombra.djvu/165

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— Hai ragione — disse — ma è orribile!

— Oh no, è basso, basso, molto più basso di noi, papà. — Ella continuò narrando come quella lettera vecchia di due anni e mezzo, l’avesse quasi fatta impazzire. La sapeva a memoria. Ripetè le preghiere appassionate fatte agli zii onde ricuperare qualche altra lettera. Ma erano tutte scomparse e neppure una ne potè tornare in luce. Si spezzarono invece i fragili legami che tenevano unita Edith alla famiglia materna dopo la morte del nonno. Ella ebbe la sua parte dell’eredità, modicissima, perchè gli eredi erano parecchi e la famiglia, non molto ricca, aveva sempre vissuto signorilmente. Chiese di poterne disporre subito e l’ottenne, a condizioni inique, che ella accettò senza discutere. Partì subito per l’Italia, sola, con la sua piccola eredità, seimila talleri, e una lettera per un impiegato della legazione di Prussia a Torino, che prestava i suoi buoni uffici anche ai cittadini del Nassau. Si recò difilata a Torino; quel signore si adoperò molto per lei e fu presto in grado di farle sapere dove avrebbe potuto trovare suo padre. Edith terminò con dire come si fosse accompagnata ai Salvador.

Steinegge osservò allora ch’era forse suo dovere scendere nel salotto prima che gli ospiti del conte si ritirassero. Accese il lume per Edith e la pregò di attenderlo; si sarebbe sbrigato in pochi minuti. Escì in fretta e scese la scala senza badare che la lampada sospesa sul pianerottolo del primo piano era spenta e che nessuna voce si sentiva tranne quella dell’orologio. Scoccò da questo, mentre passava Steinegge, un tocco sonoro. Pareva dicesse: ferma! — . Quegli si fermò, accese uno zolfanello. Le undici e mezzo! Lo zolfanello si spense e Steinegge rimase immobile con la mano distesa in aria. Possibile? Avrebbe creduto che fossero le nove e mezzo. Risalì la scala in punta di piedi e spinse pian piano l’uscio della camera di Edith.


Malombra. 11