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La contessa diventò scarlatta, e spinse via bruscamente il suo piatto su cui posava un calice pieno di barolo. Il calice si rovesciò sulla tovaglia, il conte trasalì, cacciò fuori tanto d’occhi e Sua Eccellenza esclamò: — Niente, caro. Nozze! Ecco.

Il conte sbuffava. Ci vollero tutte le tradizioni cavalleresche della sua casa per trattenerlo dal prorompere contro l’avventata cugina. Le macchie lo irritavano come se avesse avuto per blasone la pulitezza. Suonò furiosamente il campanello e gridò al servo: — Via tutta questa roba! Subito. — Fu una cannonata che gli portò fuori in foco e strepito quel groppo di collera e lo lasciò vuoto, tranquillo.

— Vi è passata, caro? — disse la contessa dopo che fu sparecchiato.

Il conte non rispose.

— Anche a me — soggiunse tosto Sua Eccellenza. — Parliamo dunque di questo affare. Sentite, Cesare. Voi a quest’ora, col vostro gran talento che avete, mi conoscete. Io sono ignorante, sono una povera scempia, ma de cuor. Sono tutta cuore. Quando si tratta delle mie viscere, della mia creatura, mi rimescolo tutta, quelle poche idee mi vanno in un mucchio, non vedo più niente, non so più niente. Sono una povera femmina così. Aiutatemi voi, Cesare, consigliatemi voi, guardate voi, dite voi, tutto voi, tutto voi. Voi siete del sangue del povero Alvise. È Alvise che mi dice di mettermi nelle vostre mani per nostro fio, per il mio Nepo.

Pronunciato questo nome, la contessa, intenerita, si asciugò gli occhi con un immenso fazzoletto.

— Perdonatemi, Cesare — diss’ella. — Sono madre, sono vecchia, sono insensata.

La voce singhiozzante della signora non era piacevole e non divertiva affatto il conte Cesare che aveva tirato indietro per isghembo la sua seggiola, e, posta una gamba a cavalcioni dell’altra, la dondolava in su e in giù, guardando la gentildonna veneziana del Palma.