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— Oh, Voi capite perfettamente — disse il conte con un accento inesprimibile. — È un mistero pel quale non vi mancava nè la fede nè la speranza prima di parlare con me. Io Ve ne ringrazio molto. Voi mi avete fatto l’onore di credere che provvederei con sufficiente larghezza al collocamento di mia nipote, benchè non ne abbia alcun obbligo ed ella non porti il mio nome. Non è questo?

Sua Eccellenza si slacciò da capo la cuffia e proruppe:

— Sa Lei, sior, cosa ho l’onore di dirle? Che a questo modo si tratta con i facchini e non con le dame. Mi meraviglio che in quella fresca età Ella non abbia ancora imparato a trattare il mondo. E mi meraviglio che con i suoi strambezzi, con i suoi zimarroni, e con la sua zazzera La creda di poter fare e dire tutto quello che Le salta in testa. Ella sarà nobile, caro, ma non la è cavaliere. Credete che se si trattasse di me non vi direi: teneteveli i Vostri bezzi? Credete che rimarrei un’ora di più in questa casa dove mi si manca di rispetto? Ringraziate Dio che di me non si tratta, perchè io non ho bisogno nè di mio fio, nè di altri, e del mio me ne avanza e non saprei che farmi dei Vostri trecento pun! nè dei vostri quattrocento, pun, pun! E io povera insulsa, che vengo a parlarvi come a un fratello! Ringraziate Dio, vi dico, che sono vecchia e userò prudenza con mio fio; se sapesse che gli si attribuiscono mire d’interesse sarebbe capace di sacrificare il suo cuore, la sua felicità e tutto quanto.

Il calore di quest’arringa non era punto simulato. La contessa Fosca, dopo aver condotto suo cugino al punto che voleva lei, si reputava offesa di sentirselo a dire. E c’entrava forse nel suo dispetto quest’altra piccola delusione, che il conte non avesse detto addirittura, com’ella sperava: Marina è mia erede.

Il conte stette mansuetamente ad ascoltare la sfuriata di sua cugina, come se non fosse affar suo; e si appagò di rispondere: