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Nepo si fermò un momento per applaudirsi mentalmente di questa frase in cui il pensiero e la voce correvano insieme ad un tonfo di tanto effetto nella parola storia.

— È la storia — proseguì — di due illustri famiglie, sostegno l’una della più gloriosa repubblica, ornamento l’altra della più illustre monarchia italiana, sorte, la prima nell’estremo oriente, l’altra nell’estremo occidente d’Italia, che strinsero parentela in tempi remoti di prepotenze straniere e di discordie nazionali, quasi preludendo e augurando alla futura Unità; che in tempi più vicini, in tempi calamitosi per i loro due Stati rinnovarono il patto, e che stanno per riconfermarlo ancora in mezzo agli splendidi avvenimenti del nuovo gran patto nazionale...

Nepo era spossato dall’improba fatica di contenere la sua voce e la sua eloquenza. Chi sa dove sarebbe andato a finire, con le migliaia di frasi che aveva in testa, senza una buona strappata di redini.

— Marina — diss’egli — volete esser contessa Salvador? Io aspetto con piena fiducia la vostra risposta.

Marina guardava tuttavia il lago e taceva. Le voci della sala si spensero in quel momento; la contessa Fosca s’affacciò alla loggia. Ella si ritirò subito, rientrò in casa parlando forte; ma gli altri fecero irruzione in loggia.

— Mi appello a Lei, marchesina, — gridava il commendator Finotti, seguito dal commendator Vezza che si stringeva nelle spalle sorridendo e ripetendo: Ha torto, ha torto.

Soltanto allora Marina si scosse come per uscire dalla corrente dei suoi pensieri, disse sottovoce a Nepo: — A domani — e lasciò la balaustrata.

Nepo si voltò corrucciato a guardar gl’interruttori e vide dietro ad essi sua madre, che gli diceva con un lungo sguardo lamentevole e con le braccia aperte:

— Come si fa?