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V’era un ghiaccio nella stanza; nessuno parlava forte. Nepo, curvo sulla spalliera delle poltrona di Marina, le chiedeva sottovoce della sua salute, si doleva di non averla mai potuta veder in quei due giorni. La contessa Fosca dall’altra parte tentennava. Si piegava verso Marina, le sussurrava una frase; si ritraeva per non porsi troppo avanti fra lei e Nepo, quindi cedeva da capo alla tentazione. Il parroco prendeva notizie del conte dall’avvocato Mirovich, in disparte. Silla non s’era mosso mai. Marina nell’entrare lo aveva guardato un momento, lo aveva confitto, quasi impietrito al suo posto.

Ella si alzò.

— Amerei dire una parola al signor Silla — disse.

Questi, pallidissimo, s’inchinò.

La contessa, Nepo, il Vezza, stupefatti, guardavano Marina, aspettando uno scoppio, una scena come quella dell’anno prima. L’avvocato interruppe la sua relazione; Don Innocenzo non capiva, gli diceva: — E dunque?

— Non qui — disse Marina.

Il Vezza e il Mirovich fecero atto, un po’ tardi, di ritirarsi. I Salvador non si mossero.

— Restino pure — soggiunse Marina. — Ho bisogno di prendere aria. Scende in giardino, signor Silla?

Questi s’inchinò daccapo.

— In giardino? — esclamò la contessa Fosca con uno scatto di malcontento.

— Con questo fresco? — soggiunse poi. — Non mi pare...

— Con questo umido? — disse Nepo. — Piuttosto in loggia.

— Buona sera — disse Marina. — Faccio un giro e poi rientro nelle mie camere.

Nepo volle replicare qualche cosa, s’imbarazzò, balbettò poche parole. Donna Marina fece un passo verso l’uscio e guardò fisso Silla, che venne ad aprirglielo.

— Buona sera — diss’ella ancora, uscendo.