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Spinse una porticina ed entrò in un corridoio. Teneva Silla per mano e lo precedeva, camminando cauta rasente la parete. Ad un tratto si fermò, credette udir passi e voci, stette in ascolto.
Le voci venivano dal piano inferiore, dal corridoio vicino alla camera del conte.
Non vi badò più, andò avanti. Si udì la sua mano tentar un uscio, girar una maniglia. Una lama di luce brillò nel corridoio, un odor di rose avvolse Silla. Entrarono.
Era la stanza dello stipo antico.
V’erano candele accese sulla ribalta calata dello stipo, sul piano aperto, sopra una libreria bassa. Dalla porta spalancata della camera da letto entrava pure un debole chiarore. Grandi mazzi sciolti di glicine celesti, di rose bianche e gialle erano sparsi un po’ dappertutto.
Marina saltò nel chiarore delle candele, trasse dentro Silla, chiuse l’uscio, ne girò la chiave, tutto in un lampo, lucente gli occhi di riso muto, lucente d’oro il collo e i polsi ignudi, bianca, a grandi ricami azzurri, la persona.
Lasciò Silla, balzò in due slanci al piano e prima che egli ne la strappasse, attaccò, con fuoco demoniaco, la siciliana del Roberto.
— Li sfido! — diss’ella lasciandosi trascinar via. — Li ho sfidati bene anche ieri sera: no? E non hanno inteso niente.
Silla aspettava che qualcuno, inteso il piano, salisse.
Marina si strinse nelle spalle, si sciolse da lui, cadde quasi supina in una poltrona.
— Qua! — diss’ella, accennandogli di sedere a terra presso a lei. — Tutte le tue memorie.
Silla non rispose.
— Il ballo, prima — soggiunse subito Marina. — Non comprendi? Il ballo Doria! — ella battè il piede a terra impaziente.