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pura, la conversazione degli uomini sereni come il nostro amico Vezza, degli uomini esperti del dolore come Lei, chi vorrà censurarmi? Ecco sciolto, signori, l’enigma di questo pranzo, e pranziamo. Lei qua, Vezza, presso a me; e Lei, dottore, lì, alla mia destra.

Il pranzo incominciò.

I commensali di donna Marina tacevano, gustavano appena delle vivande. Il commendatore deplorava in cuor suo che il pranzo finissimo, servito con eleganza squisita, tra i fiori, da una giovane e bella donna, gli fosse capitato in un momento disadatto e in circostanze tali da non poterlo affatto gustare nè con il palato nè con lo spirito. E accarezzava la sola idea piacevole che gli sorridesse in mente; raccontar la scena nei salotti di Milano, con arte, a cuore placido. Si guardava cautamente attorno, imparava a memoria le dracene e le azalee, le cascate di cinerarie e di calceolarie, sbirciava il moire della sua vicina, e per quanto poteva, il giglio bianco nello scudo di velluto. Ma gli occhi curiosi dei fiori schierati sulle gradinate come in un teatro, gli dicevano che lo spettacolo non era finito.

Il dottore studiava continuamente Marina, temendo qualche accesso come quello della sera precedente o della notte in cui era entrata la prima volta dal conte. Si teneva pronto, spiava, senza parere, ogni movimento di lei. Egli comprendeva solo adesso l’importanza attribuita da Marina a questo pranzo e si rimproverava di avervi acconsentito. Non poteva difendersi da tristi presentimenti. Il luogo così aperto sul cortile e sul lago gli metteva paura. E gli metteva paura il contegno sempre più inquieto di Marina, che dopo un cucchiaio di zuppa non aveva mangiato punto.

— Che silenzio — diss’ella finalmente. — Mi par d’essere fra le ombre. Somiglio a Proserpina?

— Oh!— rispose il commendatore storditamente. — Lei farebbe risuscitare i morti.

Subito gli venne in mente l’uomo sfigurato che giaceva