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metri, l’anello vi ruzzolò su. Marina, sorpresa, ritirò la mano in fretta; poi, rifrugando trovò che, in fondo, la mano entrava più addentro di prima e che v’erano in quell’ultima cavità degli oggetti.

Ne li trasse ad uno ad uno. Erano un libro di preghiere, uno specchietto piccolissimo con la cornice d’argento, una ciocca di capelli biondi legata con un brandello di seta nera, e un guanto.

Marina, attonita, faceva passare e ripassare ciascun oggetto sotto la fiammella di una candela. I capelli erano finissimi; parevano d’un bambino. Il guanto, a un bottone solo, era piccolo, stretto, allungato; aveva l’atto di una cosa viva: conteneva ancora, per così dire, lo spirito della mano delicata che l’aveva portato un giorno. A chi erano appartenuti quegli oggetti? Quale amore, quale occulto disegno li aveva nascosti là dentro? Marina frugò da capo nella cavità misteriosa, sperando trovare uno scritto, ma senza frutto. Riprese ad esaminare gli oggetti. Le pareva che ciascuno d’essi si struggesse di parlare, di gridare: intendi! Finalmente, voltando e rivoltando per ogni verso lo specchietto, s’avvide di qualche segno tracciato a punta di diamante sul vetro. Erano lettere e cifre segnate da una mano incerta. Con paziente attenzione Marina arrivò a leggere la seguente laconica scritta:


«Io — 2 maggio 1802.»


Parve a Marina che una luce lontana e fioca sorgesse nell’anima sua. 1802! Non viveva in quel tempo al palazzo la infelice prigioniera, la pazza della leggenda? Forse era lei. Quel guanto, quei capelli erano reliquie sue.

Ma nascoste da chi?

Marina, quasi senza sapere che si facesse, afferrò il libro di preghiere e ne sfogliò le pagine.