Pagina:Mantegazza - Elogio della vecchiaia.djvu/315

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di marco tullio cicerone 291


Del resto puossi ella, Dio buono! chiamar lunga l’umana vita? Mi si conceda pure la vita più durevole che mai si possa immaginare. Vivrò gli anni di Argantonio Re di Tartesso il quale, secondo la storia, regnò ottant’anni e centoventi ne visse.

Tuttavia non conviene, a mia opinione, stabilire siccome regola generale ciò che è meramente effetto del caso. Per l’uomo che arrivi a quell’estremo termine, tutto il tempo trascorso, è zero; non d’altro gli si tien conto fuorchè del frutto di sue virtù, e buone azioni.

Sfuggono le ore, i giorni, i mesi, gli anni, non più ritorna il tempo passato e l’avvenire è ignoto. Ciascuno ha dovere di essere pago della durata della propria vita. Nella stessa guisa che poco importa se l’attore rimane sulla scena fino al termine della commedia, bastando per fargli plauso che reciti bene quando si mostra agli spettatori; così pure il saggio non ha bisogno di vivere fino all’ultimo termine dell’età affinchè ottengano approvazione le proprie azioni. Per breve che sia la vita è sempre lunga abbastanza per chi sa vivere bene e onestamente. E perchè arriva ad un’età avanzata, l’uomo non ha diritto di lagnarsene più dell’agricoltore, il quale lamenti perchè dopo la florida primavera e la state, succedono l’autunno e il rigido verno. La prima è immagine della gioventù e i venturi frutti prepara; nell’altre stagioni poi si colgono e vengono assaporati. Il prezioso frutto della vecchiezza è dunque riposto, soffrite che io lo ripeta, nella memoria delle frequenti e nobili imprese operate.

Dovendo, parmi, accogliersi in buona parte