Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. I, 1975 – BEIC 1869702.djvu/263

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canto quarto 261


243.«E’ par mi voglia ancor col peso immondo
del suo tumido ventre indur pietate,
e mi prometta già, tronco fecondo,
gloriose propagini e beate.
Felicissima me, ch’avola il mondo
m’appellerà ne la più verde etate:
e ’l figlio d’una vii serva impudica
fia che nipote a Venere si dica!

244.Ma perché tanto onor? Di nozze tali
figlio nascer non può, spurio più tosto!
Son illecite, ingiuste, ed ineguali,
fur di furto contratte, e di nascosto;
onde quel che trarrà quindi i natali,
tra gl’infami illeggittimi fia posto:
se però tanto attenderem, ch’ai Sole
esca il bel parto di sì degna prole.

245.No no, far non poss’io che rompre il freno
sofferenza irritata alfin non deggia.
Vo’ di mia man da quel nefando seno
trar l’eterno disnor de la mia reggia.
Pace mai non avrò tanto ch’a pieno
e lei sbranata, e me sbramata io veggia.
Sazia mai non sarò finch’abbia presa
giusta vendetta de l’ingiusta offesa».

246.’f ace, e le dà di piglio, e dagl’infermi
membri tutte le squarcia e vesti e pompe.
La misera sei soffre, e non fa schermi,
né pur in picciol gemito prorompe.
Vadan pur fra’ Tiranni i corpi inermi,
l’armi però del cor forza non rompe:
la costanza vini, ch’è ne’ tormenti
lo scudo adamantin degl’innocenti.