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CANTO NONO
Pensò forse il fellon quando m’offese
per atto tal di migliorar ventura,
e con la voce del ferrato arnese
d’acquistar grido appo l’etá futura.
Sperò col lampo che la polve accese
di rischiarar la sua memoria oscura,
e fatto da la rabbia audace e forte
si volse immortalar con la mia morte.
Girò l’infausta chiave, e le sue strane
volgendo intorno e spaventose rote,
abbassar fe’ la testa al fiero Cane
che ’n bocca tien la formidabil cote,
si che toccò le machine inumane
ond’avampa il balen ch’altrui percote,
e con fragore orribile e rimbombo
aventò contro me globi di piombo.
Ma fusse pur del Ciel grazia seconda,
ch’innocenza e bontá sovente aita,
o pur virtú di quella sacra fronda
che da folgore mai non è ferita;
fra gli ozii di quest’antro e di quest’onda
fui riserbato a piú tranquilla vita.
Forse com’amator di sua bell’arte,
campommi Apollo da Vulcano e Marte.
Quindi l’Alpi varcando, il bel paese
giunsi a veder de la contrada Franca,
dove i gran Gigli d’oro ombra cortese
prestaro un tempo a la mia vita stanca.
La virtú vidi, e la beltá francese,
v’abonda onor, né cortesia vi manca.
Terren sí d’ogni ben ricco e fecondo,
ch’i’ non so dir, se sia provincia, o mondo.