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Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. I, 1975 – BEIC 1869702.djvu/624

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31.Treraolavan per entro i rai sereni
quelle fulgide fiamme a mille a mille
non altrimenti ch’atomi o baleni
soglian per le snebbiate aure tranquille,
o lucciolette, che ne’ prati ameni
con vicende di lampi e di scintille
vibrano, quasi fiaccole animate,
il focil de le piume innargentate.

32.— Deh per quel dolce ardor — disse il Donzello
a la sua Dea — che per te dolce m’arse,
dammi ch’io sappia: che fulgore è quello
che repentino agli occhi nostri apparse?
E quelle luci, che ’n piú d’un drappello
vanno per mezo i raggi erranti e sparse,
dimmi che son, poi ch’a beltá sí rara
la chiarezza del Ciel piú si rischiara? —

33.— La luce che tu miri, è quella istessa
ch’arde ne’ tuoi begli occhi — ella rispose —:
specchio dí Dio, che si vagheggia in essa,
fior de le piú perfette e rare cose:
stampa immortai da quel suggello impressa,
dove il Fattor la sua sembianza pose:
proporzi’on d’ogm mortai fattura,
pregio del mondo, e gloria di Natura.

34.Ésca dolce de l’occhio, e dolce rete
del cor, che dolcemente il fa languire,
vero piacer de l’alma, alma quiete
de’ sensi, ultimo fin d’ogni desire,
fonte che solo altrui può trar la sete
e sol render amabile il martire.
S’udito hai nominar giá mai bellezza,
qui ne vedi l’essenza, e la pienezza.