Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. II, 1977 – BEIC 1871053.djvu/119

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123.Ahi chi del fior del mio sperar mi priva?
chi nega agli occhi miei l’amata Aurora?
giungerò mai di tanti strazii a riva?
godrò mai lieta o consolata un’ora?
Com’esser può che senza vita io viva?
Sará pur ver, che non morendo io mora?
Deh che farò? com’avrò pace alcuna?
Con voi parlo, Amor empio, empia Fortuna.

124.Fortuna empia, empio Amor, quai pene o danni
non sostien chi per voi piagne e sospira?
L’un è fanciul fallace e pien d’inganni,
femina l’altra, ebra d’orgoglio e d’ira.
Questa sovra la rota, e quei su i vanni,
quei sempre vola, e questa sempre gira.
Cieco l’un, cieca l’altra, ed ambidui
Aquila e Lince a saettare altrui. —

125.Con queste note or di sua sorte dura,
or del crudel Amor seco discorre;
Venere incolpa, che di lui non cura,
di Mercurio si duol, che noi soccorre;
quand’ecco entrato in quella stanza oscura
Mercurio istesso a la sua vista occorre,
ch’a dispetto di toppe e di serragli
viene a porgergli aita in que’ travagli.

126.Mercurio, a cui giá da la Dea commesso
fu il patrocinio di chi ’l cor le tolse,
gli assistea sempre, e ’l visitava spesso,
se ben lasciar veder mai non si vòlse.
Veggendol dal digiun talvolta oppresso,
cibi divini e dilicati accolse,
ed al mesto Garzon poi la Colomba
gli recava nel becco entro la tomba.

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