Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. II, 1977 – BEIC 1871053.djvu/222

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255.Il vaso è d’oro, e in una ombrosa fratta
d’un bel ruscel su le fiorite sponde
Diana v’ha col suo Pastor ritratta,
e son rubini i fior, diamanti Tonde.
Di smalti e perle la faretra è fatta,
son di smeraldo fin l’erbe e le fronde.
Duo veltri, che da Torlo il capo tranno,
manico estrano a la bell’urna fanno.

256.Prendo il nappo leggiadro, e prima inchino
l’alta mia Dea, poi reverente assorgo.
Corro, e del fonte terso e cristallino
l’attuffo una e due volte al chiaro gorgo,
indi di molle argento empio l’or fino,
e palpitante a la man bella il porgo.
Le porgo il vaso, e le presento il core:
acqua le dono, c nc ritraggo ardore.

257.Sento in quel che la coppa in man riceve
premermi il dito, il dito anch’io le premo,
ma quasi nel toccar la viva neve
spando a terra l’umor, cosí ne tremo.
Da’ dolci lumi in me, mentr’ella beve,
raggi saetta di conforto estremo.
Levando alfin le rugiadose labbia,
dimanda Herbosco onde ’l bel vaso egli abbia.

258.Rispondo: «Io fui, che ’n dono ottenni il vase
dal gran Signor de l’odorata messe,
quando Fauno al cantar vinto rimase,
giudice il Re, che vincitor m’elesse,
e ’l crin di lauro entro le regie case
cinsemi ancor con le sue mani istesse.
E questo il canto fu, s’io ben rammento
ogni numero a punto, ed ogni accento: