Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. II, 1977 – BEIC 1871053.djvu/410

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39.Risponde l’altra allor: — Raro vien solo
un mal per aspro e per mortai che sia.
Il separarmi con fugace volo
da la tua vista, e da la vita mia,
sappi ch’egli non m’è sí grave duolo,
né mi dá pena tanto acerba e ria,
quanto il vederti piangere e sentire
sí profondo dolor del mio partire.

40.Ma l’udirmi incolpar di poco fida,
ciò piú m’afflige. E credi, anima ingrata,
ch’io con lo Dio guerriero ed omicida
cangiar mai deggia la mia pace amata?
In lui spavento, in te beltá s’annida,
ei tutto ferro, e tu con chioma aurata.
Egli con fiere e sanguinose palme
uccide i corpi, e tu dái vita a l’alme. —

41.Poi segue: — Se giá mai porrò in oblio
del mio costante amor l’alta fermezza,
il Ciel di me si scordi; o se pur io
rimembrar giá mai deggio altra bellezza,
destin mi faccia ingiurioso e rio
scontar con mille affanni una dolcezza.
Facciami acerba e dispietata sorte
pianger la vita mia ne la tua morte. —

42.Ed egli: — S’altro strai giá mai mi fiede
di quel ch’uscio de’ tuoi begli occhi ardenti,
per questi prati, ovunque poso il piede,
secchin l’erbette verdi, e i fior ridenti.
Se mai rivolgo da l’antica fede
ad altro oggetto i miei pensieri intenti,
traggami iniqua stella inerme e stanco
dove mostro crudel mi squarci il fianco. —