Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. II, 1977 – BEIC 1871053.djvu/471

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CANTO DECIMOOTTAVO

Imperversa accanito, in fra le genti
oltre si scaglia e co’ inastin s’azzuffa.

Le puche de la fronte irte e pungenti
e de la pelle setolosa arruffa.

De le picciole luci i fuochi ardenti
vibra, e s’arriccia, e si rabbuffa e sbuffa,
di scintille di sangue orridi lampi
par che secchino i fiumi, ardano i campi.

Non perde Adon coraggio, e dá di piglio
al secondo quadrel, ch’è vie piú fino,
e spera nel Cinghiai farlo vermiglio,
perché ’n Etna il temprò fabro divino.

Di Vener bella al faretrato figlio
tolto l’avea per suo peggior destino,
onde nel fiero e furioso core
s’accoppiaro due Furie, Ira, ed Amore.

Lo strai, che ’l miglior fianco al mostro colse,
d’umano ardor l’alma inumana accese,
onde quando al fanciul gli occhi rivolse,
che da lunge il trafisse, e non l’offese,
vago del danno suo, non se ne dolse,
ma per meglio mirarlo il corso stese,
ed ingordito di beltá sí vaga
(miraeoi novo) inacerbí la piaga.

Chi dunque stupirá, che del fratello
ardesse Bibli con infame ardore?
e Mirra, di cui nacque Adone il bello,
ad amar s’accendesse il genitore?

Qual meraviglia ha, che questo e quello
per la propria sua specie infiammi Amore,
se nel cor d’una Fera ebbe ancor loco
sí violento e mostruoso foco?