Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. II, 1977 – BEIC 1871053.djvu/486

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143.Non giá, non mi produsse in bosco o in fiume
di Deitá plebea rustica schiatta!
Siam progenie ancor noi di quel gran Nume
che del fulmine eterno il foco tratta.
Chi mie ragion di violar presume?
Ogni legge del Ciel dunque è disfatta?
Che stragi oimè? che strazii empi son questi?
Chiudon tanto furor Calme celesti?

144.Ingiustissimo Ciel, di lumi indegno,
degno di ricettar sol ne’ tuoi chiostri
simili a punto a quel ch’oggi il suo sdegno
nel mio bene ha sfogato, infami mostri.
Tiranni iniqui de l’etereo regno,
ecco pur appagati i desir vostri.
Oh quanto a torto a voi gl’incensi accende
lo schernito mortale, e i voti appende!

145.Giá non osò con voglie a voi rubelle
quel mio, che colaggiú morto si piagne,
per assalir, per espugnar le stelle
fabricar torri, o sollevar montagne.
Giá non tentò con quella mano imbelle,
sol fere usa a domar per le campagne,
sovra l’umana ambizione altero
d’usurparvi l’onor, tórvi l’impero.

146.Vanne ai templi di Scithia il tuo digiuno
d’uman sangue a sbramar, Giove rabbioso!
Qual fu la colpa? in che t’offese, o Giuno,
quell’innocente essangue e sanguinoso?
Chiedea forse arrogante ed importuno
gli abbracciamenti del tuo ingordo Sposo?
Anzi umilmente, e senza alcuno orgoglio
vivea romito in solitario scoglio.